I paradisi fiscali esteri si prestano quasi sempre ad un uso illegittimo, per lo più sfruttando caratteristiche della legislazione dello Stato stesso in oggetto che non appartengono alla sfera fiscale e che pertanto non appartengono al cosidetto paradiso fiscale.
Gli usi illegittimi sono dunque dei più vari, considerato che spesso in detti Stati è prevista la possibilità di costituire una società di capitali al proprio interno senza particolari formalità (ad es. l’assenza di un minimo capitale sociale, la possibilità di avere azioni al portatore, l’assenza di limiti all’indebitamento oltre misura rispetto al capitale sociale, l’assenza di obbligo di nominare amministratori che siano persone fisiche, come quello di certificazione del bilancio), senza contare poi che in molti Stati viene rilasciata l’autorizzazione ad esercitare l’attività bancaria e finanziaria in genere, senza richiedere stringenti requisiti patrimoniali e di affidabilità e soprattutto, viene garantito il segreto bancario, a tal punto che la stessa banca non sa chi sia il beneficiario economico del conto che è stato aperto.
Il quadro può essere completato con un sistema penale, che non preveda il reato di evasione fiscale, di falso in bilancio, di insider trading, di corruzione e di riciclaggio.
Consentendo, dunque, ai paradisi fiscali l’anonimato azionario, bancario o entrambi, essi vengono utilizzati a titolo illegittimo, posto che dell’anonimato si approfitta per compiere trasferimenti, inter vivos e mortis causa, che altrimenti attrarrebbero l’imposizione fiscale del paese cui l’operatore appartiene.
Tuttavia in tali casi l’esistenza del paradiso fiscale non costituisce l’incentivo principale.
È la combinazione dei due risultati, che rende attraente il ricorso a simili operazioni.
Lo stesso risultato si raggiunge nel caso delle Anstalt mediante la redazione di un atto di designazione del beneficiario con il nome in bianco, cosicché il certificato circola come un titolo al portatore.
Gli usi dell’anonimato tuttavia non si esauriscono in questo e la loro combinazione con il concetto di paradiso fiscale, che risulta essere diffusa in ogni paese, sembra dovuta a due ordini di ragioni.
La ovvia ragione giuridica è che la maggior parte degli Stati “latini” hanno una moneta debole e cercano di tutelarla mediante legislazioni assai restrittive in tema di cambi e di possesso di disponibilità di valuta estera.
Il ricorso all’anonimato tende perciò a coprire non solo l’evasione fiscale, ma prima ancora l’evasione valutaria.
La , invece, sta nel rapporto fra il cittadino ed il fisco: il contribuente inglese od americano si sentono impegnati in una gara sportiva con il fisco, una gara di astuzia ed abilità, in cui si compete a carte scoperte.
Enorme è infatti in tali paesi, alla scadenza della denuncia dei redditi la produzione di volumetti illustrativi volti a far pagare meno tasse ai contribuenti, evidenziando la possibilità di ricorrere soprattutto ai paradisi fiscali interni, ma in alcuni casi a quelli esterni.
Resta infine da menzionare la posizione dell’integrazione europea nel discorso dei paradisi fiscali, materia che oltre sarà ampiamente sviluppata, ma che in prima battuta può essere riferita mettendo in luce che la libertà di circolazione dei capitali e più in generale, dei movimenti finanziari, sta radicalmente trasformando la funzione stessa dei paradisi fiscali, posto che numerosi obiettivi che prima richiedevano strutture complesse sono ora alla portata di tutti in ambito europeo.
L’integrazione comunitaria pone tuttavia due ordini di problemi sotto il profilo dei paradisi fiscali: da un lato, il controllo delle operazioni che hanno luogo oltre la frontiera nazionale; dall’altro l’impiego di Tax Havens propri dello Stato comunitario cui si ha oramai libero accesso.
Circa il primo aspetto, l’amministrazione finanziaria ha aggiunto nuovi prospetti alle denunce dei redditi, ma essi appaiono di scarsissima efficacia.